Fagiuoli e Nelli

Il Gigli nello scrivere il Ser Lapo si rivolse per consigli, circa il dialetto fiorentino che vi adoperava, a G.B. Fagiuoli, considerato come lo specialista di quel linguaggio in commedia e famoso soprattutto per i suoi personaggi rappresentanti vecchi cittadini o contadini fiorentini. In realtà mai il Fagiuoli sarebbe giunto (né vi avrebbe aspirato) alla crudezza, al vigore sanguigno che ha il Lapo del Gigli e che tanto piú spicca se lo si confronta con gli Anselmo Taccagni, con i Ciapo del commediografo fiorentino.

Giovan Battista Fagiuoli[1] ha infatti un temperamento molto diverso dal Gigli e la sua stessa fama specie in Toscana (dove forse ancora qualche vecchio popolano legge le sue rime o quel curioso libretto di Cesare Causa, Il poeta Fagiuoli: Motti, facezie e burle del celebre buffone di corte, che raccolse un’apocrifa produzione legata alla falsa tradizione di un Fagiuoli buffone di corte[2]) si impose soprattutto, sin dall’inizio del secolo, per il suo umore «faceto», per il carattere piacevole e poco impegnativo della sua opera scherzosa e semmai per la sua competenza di linguaiolo fiorentino, erede della tradizione bernesca, del capitolismo conversevole e amabilmente satirico.

Come la sua vita fu soprattutto una ricerca di accordo, del resto assai facile, con una società accogliente ed amante dello scherzo e della bella lingua (fra la Crusca, l’accademia degli Apatisti e la corte, e le ville granducali di Poggio Imperiale e di Lappeggi), cosí la sua opera rispecchiò, senza eccessivo sforzo, il suo temperamento privo di forte tensione, la sua fondamentale tendenza discorsiva e burlesca.

Amico degli uomini della nuova cultura scientifica ed arcadica (Redi, Filicaia, Bellini, Salvini), il Fagiuoli sentí, in quella società ricca di nuovi fermenti ma anche di un rinnovato gusto di conversevole accademismo linguaiolo, il lato meno profondo, piú mediocre di una vita intensa di relazione fra scienziati e letterati accomunati nelle accademie fiorentine dal piacere del divertimento letterario, dello scherzo linguistico, delle «cicalate» e dei «capitoli», delle parodie del linguaggio popolare e contadinesco.

E piú che con le commedie egli si impose appunto in quell’ambiente con le sue cicalate, con i suoi capitoli, con i suoi sonetti scherzosi con i quali riempí numerosi volumi (Prose, Firenze, 1737; Rime piacevoli, Firenze, 1729-1730 e Lucca, 1733-1745; Fagiuolaia, Amsterdam, 1734), indicando da sé la direzione essenziale della sua debole ispirazione con l’epiteto di «piacevole» e chiamando se stesso «il faceto Fagiuoli». A parte le prose che son per lo piú costituite da «cicalate» accademiche, soluzioni «facete» e prolisse di dubbi e quesiti balordi e sofistici (Chi sia di statura piú biasimevole, quel che è troppo grande o troppo piccolo, Se in un perfetto amante possa cadere il desiderio della morte dell’amata, nel caso che debba essere d’altri) e di motti e proverbi, pretesti a far brillare la propria bravura linguistica, la propria abilità ad intessere discorsi lepidi ed arguti su cose da nulla, se noi leggiamo le sue Rime piacevoli (che mandarono in visibilio il Giusti, per la loro purezza fiorentina, ma che indussero il Baretti a proclamare il Fagiuoli «principe dei seccatori» e rappresentante fastidioso dei berneschi del Settecento) vi troviamo soprattutto la tendenza a svolgere all’infinito piccoli nuclei comici o leggermente satirici in una discorsività facile e sicura, ma snervata e poco incisiva, ben diversa dall’esuberanza del Gigli, tanto piú disordinata e squilibrata, ma tanto piú densa, colorita e personale.

Anche quando coglie con maggior forza iniziale un tema «bernesco» come quello della ingordigia frettolosa dei cortigiani di Lappeggi[3], rappresentata efficacemente nello stupore allibito del poeta che all’inizio del pranzo vede i cortigiani alle prese con le vivande

(Restai per lo stupor quasi di smalto,

con gli occhi immoti all’affannata guerra,

con la forchetta in man sospes’in alto)

e rimane a guardare finché termina la strana gara

(Quindi sudato ognun si tira sú,

con mezza lingua fuor, peggio d’un bracco,

non s’ha piú forza e non s’ha fiato piú),

finisce poi per guastarlo ripetendolo e variandolo per centinaia di terzine sempre piú scialbe.

Anche quando la stessa tematica delle sue rime pare promettere un maggior impegno, in contatto con motivi del suo tempo, come quello della satira del bacchettone e dell’ipocrita, essa si risolve in scherzi esteriori, in trovate piacevoli ma senza forza (la lode ironica della saggezza del campanil di Pisa esempio di «collotorto» perenne), o rivela soprattutto un compiacimento di coerenza nei facili contrasti, nel giuoco equivoco delle parole e dei modi di dire[4].

E se tocca argomenti di per sé amari e suscettibili di una reazione intima, di una vibrazione personale, il suo timbro di uomo «faceto» e senza «passione», la sua sentenziosità superficiale (che utilizza motivi ed immagini popolari in una scrittura sciolta e sicura, ma senza intimo scavo) ci provano ancora la mediocrità del suo atteggiamento, la sua esperienza della vita, leggera e gretta, il suo risolino di facile scetticismo e di facile accomodamento. Come si può sentire in questo sonetto sulla vita dell’uomo (e si pensi a che cosa diverrà questo tema popolare nell’ispirazione del Belli!):

Spalanca gli occhi il poverin, quand’esce

in questo magazzin pien di malanni,

e pria che veggia il dí, piagne i suoi danni,

e come un assassin legato cresce.

Quando la poppa latte piú non mesce,

ecco il pedante che gli scuote i panni,

poi, tra rabbia ed amor, quand’ha piú anni,

divien sí ch’ei non è carne né pesce.

Già fatto vecchio, si ritrova giunto

da mille doglie e tal ch’a un bastoncino

s’appoggia mezzo rattrappito e smunto.

Nella fossa alla fin sbalza il meschino:

presto cosí che si può dir: ’n un punto

la balia se ne va, viene il becchino.[5]

O si legga questo scherzo, poco appuntito, sulla vita:

Questo mondo è una zucca madornale,

piena di pesci e questi qui noi siamo,

che dentro or qui or là sempre giriamo,

e sempre in sú e giú chi scende e sale.

Siam di numero grande e disuguale,

quel che da noi si voglia, nol sappiamo:

fra di noi solamente c’ingojamo,

e chi ha bocca maggiore in ciò prevale.

Il Tempo, pescator del qual all’esca

nel nascer fummo presi, or qui ci ha fitti,

né vuol se non che a voglia sua, se n’esca.

E quando a divorarci ha i dí prescritti,

chiama la morte, che, qual sua fantesca,

ci trae da questa zucca, e allor siam fritti.

E cosí zitti zitti

diventiam senza distinzion di sorte

la frittura del Tempo e della Morte.[6]

Si avvertirà bene in questi versi come il Fagiuoli (che persino nelle reazioni ad avvenimenti personali dolorosi è pronto ad un accomodamento facile o ad un sorrisetto che appare piú frutto di una egoistica tranquillità che di un forte dominio sulle cose e su se stesso[7]) guardasse alla vita con un occhio piú curioso che profondamente interessato, con un atteggiamento che traduce in saggezza mediocre, in ironia senza sdegno quell’essenziale ideale di misura, di prudenza, di fruizione di una realtà ordinata e razionale, spontanea e naturale che ha ben altra serietà nell’animo dei suoi contemporanei e conterranei: un Redi, un Filicaia, un Menzini.

Di quell’ambiente vario e vivo fra esigenze scientifiche, impegno di rinnovamento culturale e letterario[8], egli risente i lati piú deboli, accademici e discorsivi, il gusto della parola scherzosa, della burla, di una riproduzione piacevole della lingua parlata in capitoli berneschi, in scherzi scenici, in commedie che vivono soprattutto in funzione di una vivacità di parlato e di dialogo, di un divertimento linguistico.

Naturalmente questa limitazione del suo atteggiamento vitale e del suo interesse artistico ci conduce anche a riconoscere al Fagiuoli la sua importanza nella letteratura teatrale del primo Settecento: non tanto vera forza di ispirazione comica (quale ha il Gigli), né vera capacità di costruzione organica alla luce di un programma di riforma che egli direttamente poco sentí (e che si deve invece almeno in parte riconoscere al Nelli), ma, entro disegni di scherzi comici piú o meno complessi, una disposizione al parlato, al dialogo in una lingua facile, corrente e piacevole anche se troppo insistente sui propri mezzi di comicità ciarliera, sul sapore della popolarità fiorentina con proverbi, modi di dire, riboboli che alla lunga stancano e che intimamente non hanno la densità ed il significato di risentimento estroso che hanno nel Gigli.

Con il Fagiuoli la parola scritta, ma tesa a riprodurre la spontaneità e la ricchezza di quella parlata (e di un concreto ambiente anche se riecheggiata letterariamente ed in una tradizione accademica e bernesca), riconquista il suo predominio nel teatro comico, si prende la rivincita sulla diversa tecnica della commedia dell’arte – di cui pure il Fagiuoli utilizza spregiudicatamente procedimenti scenici e figure tradizionali – e lo fa con eccesso, quasi con istintivo gusto polemico.

Cosí dal seno della sua esperienza di capitolista e di «cicalatore» nascono i suoi scherzi scenici, le sue commediole di ambiente campagnuolo, in cui azione e personaggi son creati in funzione del dialogo, del parlato. E come le sue risorse sono soprattutto i giuochi di parole, gli equivoci che nascono dalla ignoranza e dalla semplicioneria o dalla diversità della lingua (le parlate di Ciapo contadino che storpia le parole difficili e le intende a modo suo, quelle di Sempliciano Dolciati, nel Marito alla moda, che per il suo ingegno grosso capisce sempre all’incontrario, o quelle di Anselmo nel Cavalier Parigino con gli equivoci provocati dall’ibrido francese del falso cavaliere di Tantechose), il centro del suo interesse – attraverso questi mezzi adoperati con estrema abbondanza – va alla possibilità di reggere la commedia non tanto sulla forza dell’azione, quanto sul dialogo, sugli effetti comici del parlato.

Ciò gli riesce piú facile in quelle commediole campagnole (piú vicine ai suoi iniziali scherzi scenici spesso ridotti al semplice dialogo di due personaggi), nelle quali il Fagiuoli traduceva insieme una vaga ripresa di motivi arcadici di idillio campestre (donde viene a lui una certa leggiadria in quelli che il Baretti chiamava i suoi «graziosissimi contadini»[9]) e una piú viva adesione a quella tradizione fiorentina di idillio rusticale parodistico, di bonaria caricatura della vita dei contadini che alla fine del Seicento il Baldovini aveva ripreso con. tanto plauso nel Lamento di Cecco di Varlungo.

Nella loro destinazione di divertimento (specie nei teatrini delle ville granducali dove il Fagiuoli, non «buffone», ma letterato di corte, allestiva recite di commedie piú elaborate e recite di divertimenti scenici raffazzonati alla svelta e spesso ricucendo e adattando dialoghetti e scherzi scenici precedenti), queste commediole hanno una loro piú facile coerenza, una semplicità di linea in cui il Fagiuoli utilizzava e riduceva in forme piú verosimili ed organiche (ma non tali da rappresentare una vera semplificazione per concentrazione superiore) trame della commedia dell’arte e persino intrighi romanzeschi con una spregiudicatezza che lo diversifica, come Gigli e Nelli, dalla posizione piú schizzinosa dei commediografi della commedia erudita e classicistica, insieme ai quali però non disdegnava, nelle sue commedie cittadine, di rifarsi anche a trame della novellistica e della commedia cinquecentesca, come d’altra parte non rifiutava spunti del nuovo teatro francese.

Non direi che in queste commediole piú semplici e piú facilmente armoniche il Fagiuoli tocchi davvero la verità e spontaneità della vita contadina come sembrò al Sanesi, che parla di «veri contadini», o come sembrò anche al Goldoni che scrisse: «Lessi il Fagiuoli: vi trovai la semplicità, la verità, la natura, ma poco interesse e pochissima arte, e i suoi riboboli fiorentini m’incomodavano infinitamente»[10].

In realtà, anche nella commedia che può sembrare piú ispirata al gusto della spontanea vita campagnuola (Un vero amore non cura interesse), come la simpatia per i personaggi di questo idillio comico non è tanto profonda da farsi elemento di poesia e l’intenzione dell’autore va soprattutto alla comicità «buffa» (e il «buffo» costituisce la parola piú adatta alla dimensione tipica del Fagiuoli: qualcosa che resta a mezzo fra la satira e l’umorismo pervaso da simpatia e comprensione, una dimensione mediocre e corrispondente piú a curiosità divertita che ad interesse), all’effetto comico da ricavare dalla dabbenaggine dei suoi personaggi, espressa nel loro linguaggio storpiato e goffo quanto piú si vuol fare serio e patetico, cosí questi contadini sono disegnati con l’occhio compiaciuto del letterato col sorrisetto di superiorità del cittadino che li mette in burla senza meditare sulla intimità dei loro affetti e senza una profonda ricerca realistica.

Sono figurine buffe e leggere, vive al solito nel loro parlato, pieno di spropositi e di gustosi modi gergali (ma alla lunga fastidiosi e pesanti), con le gradazioni assai abili del linguaggio dei cittadini di varia levatura sociale e culturale (il gentiluomo che vive in campagna, il servitore di origine campagnuola, ma divenuto pretenzioso per la sua permanenza in città, il vecchio padrone fiorentino, avaro e innamorato delle sue giovani contadine). E lo stesso personaggio centrale di tutte queste commedie – Ciapo, il contadino anziano, furbo e ignorante, sornione e cocciuto ma alla fine ingenuo di fronte alla scaltrezza dei cittadini –, se supera per compiutezza i Nanni, Tonino, Cecco, Tonia, Menica, che lo circondano, è vivo soprattutto negli effetti «faceti» e «piacevoli» delle sue battute in superficie (si pensi ai contadini del Ruzzante!), con una sua grazia melensa che attutisce gli spunti piú risentiti, la forza della sua «verità», e lo mantiene in questa zona fra arcadica e tradizionale-toscana, in questo tono di «buffo», di ridicolo ottenuto attraverso i suoi spropositi e la piacevole comicità del suo proverbiare sentenzioso e «stenterellesco».

Si consideri comunque, a precisare l’importanza del Fagiuoli nella commedia del primo Settecento (in quella corrente che risente delle esigenze di riforma arcadica, ma che è piú spregiudicata nei suoi rapporti con la commedia dell’arte, e piú legata a tradizioni locali tra letterarie e popolari), anche la sua capacità di dar voce, di far parlare personaggi che, per quanto superficiali e mediocri, rappresentano una interessante trasformazione delle maschere della commedia dell’arte in nuovi tipi moderni e aderenti ad una tradizione locale: come è il Ciapo già ricordato, l’Anselmo Taccagni, le varie fanciulle e i giovani che riprendono caratteri di Arlecchino, di Pantalone, degli «innamorati», con una nuova giustificazione di figure della tradizione popolare fiorentina e con una espressività trasferita dalla forza del gesto a quella del parlato con la sua piacevolezza, con la sua maggiore aspirazione alla naturalezza, alla semplicità, alla disinvoltura.

E non per nulla le sue prime prove furono dialoghetti; scherzi scenici, in cui sembra quasi che egli abbia voluto provare la propria possibilità di far parlare i suoi personaggi nelle situazioni piú semplici, per poi passare nelle commedie rusticali ad un maggiore, ma sempre limitato movimento di azione e personaggi, in schemi assai semplici (verifica e svolgimento di un proverbio), in un disegno facile di figure buffe e ciarliere con effetti di festività piuttosto stentata e poco profonda, con l’impressione di una freschezza viziata da un gusto accademico e dalla mancanza di una vera simpatia dell’autore per ciò che rappresenta, e comunque appensantita dall’insistenza e dalla ripetizione nel giuoco linguistico: stucchevole proprio nella sua ricerca di continue facezie, di equivoci e modi di dire ridicoli, di puntigliosa riproduzione di battibecchi, che non han poi la forza di superare il dialogo, di diventare coro (come avverrà in Goldoni), decadendo invece in un cicaleccio fastidioso e dispersivo.

Del resto il Fagiuoli delle commedie rusticali, come non si azzarda ad impiantare situazioni complicate – del resto non richieste da questo essenziale spirito di scherzo comico-idillico con il suo modesto realismo illeggiadrito e accademico –, cosí evita di far muovere e parlare insieme parecchi personaggi, limitandosi per lo piú a duetti[11] o al massimo introducendo un personaggio, una voce che in disparte commenta il duetto centrale – vedi atto II sc. IV –, in cui il marito geloso comicamente iroso borbotta frasi minacciose e sviluppa a modo suo le battute del duetto innocente che si svolge fra la moglie alla finestra e il compito e galante notaio cittadino nella strada.

E quando tenta – come nel finale di La nobiltà vuol ricchezza ovvero il conte di Bucotondo – di creare un coro festoso e comico (la voce del conte balbuziente e gli stornelli equivoci e contadineschi in sua lode), mostra la sua debolezza, la sua mancanza di quella elastica forza di voci omogenee e variate che trionfa, ad esempio, nel brindisi nella locanda, nel Campiello goldoniano.

Ma accanto a queste commediole rusticali (con la loro gracile e petulante piacevolezza, con la loro equivoca freschezza e tuttavia con i loro pregi di maggiore semplicità e coerenza e con il loro significato nella storia del teatro comico proprio per la semplicità del disegno e per la sicurezza del parlato), il Fagiuoli ambí anche a costruire commedie «cittadine» piú complesse e non prive di qualche velleità moralistica.

In un certo senso queste prove piú ambiziose e difficili (e certo meno riuscite, quanto a compiutezza, di quelle rusticali, tanto piú semplici e facili) indicano che anche nel Fagiuoli pur nel suo essenziale gusto del «piacevole» e del «faceto», del divertimento poco impegnativo, soprattutto nell’efficacia comica del parlato, nelle risorse della lingua[12] – si facevan sentire lo stimolo della nuova commedia molieriana e le esigenze di una commedia non solo «scritta» (e che rendesse nella scrittura l’efficacia del parlato), non solo moralmente castigata (e in tal senso il Fagiuoli non poteva che esser lodato dai suoi contemporanei), ma capace di dar vita organicamente e in forma limpida e corretta ad una satira di costume, ad una rappresentazione, comica ed educativa, di condizioni della società contemporanea, a personaggi simili ad uomini del proprio tempo. Naturalmente, data la sua natura, il Fagiuoli risentí le esigenze della nuova commedia etica e razionalistica in maniera assai esterna e, se rivolse la sua attenzione alla vita contemporanea, al muoversi del costume in anni in questo senso molto importanti (donde anche l’interesse di documento che queste commedie possono avere come quelle, molto piú indicative, del Nelli), egli non ebbe la forza di addentrare questa attenzione e questo sguardo sotto le apparenze piú superficiali della «moda», di approfondire, ad esempio, quel contrasto fra nuove e vecchie generazioni a cui guarda, senza aver la forza di rendere piú esplicita la sua condanna della «moda» di una vita piú libera nei rapporti socievoli fra i due sessi, e senza d’altra parte affermare una comprensione, sia pur distaccata ed ironica, superiore alla semplice curiosità e al risolino dello spettatore, inteso solo a tratteggiar burle e caricature.

Come si può vedere, in maniera evidente, nel Cicisbeo sconsolato (ovvero ciò che pare non è), commedia che ebbe grande successo a Firenze e in Toscana (ma passò nell’Italia settentrionale, ai teatri dei comici di professione, solo nella riduzione a scenario, come dimostra il citato articolo del Del Cerro) e che (scritta nel 1708, ma ripresa e maggiormente diffusa nel 1725) è un notevole documento dei nuovi interessi toscani per una commedia non di evasione idillico-comica, ma diretta a rappresentare condizioni della società contemporanea, a trarre riso dalla moda, allora affermatasi, del cicisbeo e del cavalier servente[13].

Ma questo tema della pace familiare turbata dalla nuova istituzione del cicisbeo è effettivamente piú enunciato che svolto e, mentre il cicisbeo è caricatura esagerata di un vanesio senza alcuna risorsa, l’attenzione alla vita di una casa, nel contrasto fra vecchi e giovani, si svia tutta nella soluzione del sottotitolo (ciò che pare non è: la giovane sposa apparentemente civetta è onestissima e la fanciulla da marito apparentemente ingenua è scaltrissima nel condurre a buon porto il suo amore segreto) e culmina nella scena finale, assai buona ma di chiara ascendenza cinquecentesca, in cui il Fagiuoli riesce ad ottenere un piacevole incontro di voci fra le donne alle finestre, gli innamorati e i gelosi nel cortile.

Comunque il Cicisbeo sconsolato è un’opera interessante nel teatro comico del Fagiuoli e nel teatro comico del primo Settecento, indicando questa volontà di apertura e di attenzione alla vita contemporanea, al muoversi dei rapporti familiari e socievoli, ed è anche interessante perché il commediografo fiorentino vi fa esperienza di maggior movimento scenico e, mentre cerca di dare una maggiore caratterizzazione ai suoi personaggi ridicoli (nutriti di ricordi delle maschere dell’arte e insieme aspiranti ad una vita piú individuata) in relazione ad una ambientazione cittadina e familiare piú precisa ed impegnativa, tenta anche di organizzare le sue risorse comiche in funzione di una rappresentazione piú mossa, complessa ed organica.

Questa maggiore ambizione (maturatasi in un esercizio teatrale vario e spregiudicato nell’accettazione di temi e di procedimenti mutuati alla commedia dell’arte, alla commedia italospagnuola, alla commedia cinquecentesca e al nuovo teatro francese, in una maggiore attenzione alle condizioni della società del proprio tempo) si estrinseca nelle numerose commedie degli anni piú tardi e raggiunge i suoi risultati piú notevoli in coincidenza con la vecchiaia del fecondo Fagiuoli, quando questi mostra d’altra parte una maggiore scaltrezza stilistica, un piú raffinato senso del proprio linguaggio in quelle riduzioni di precedenti commedie in formule piú agili e miniaturistiche per teatro di burattini[14], e in quello scherzo scenico, La Zingana, che nel ritmo rapido dei versi brevi e nel giuoco assai abile di figurine fra mondo campagnuolo e commedia dell’arte (Zingana, Capitano, Pulcinella, Dottore, Goro, Tonio, Ciapo, Lena), con l’incontro di diverse sfumature dialettali, crea una piacevole atmosfera di farsa fiabesca[15].

In questa attività degli anni piú tardi, in cui il Fagiuoli provò e riprovò piú volte schemi piú simmetrici (come in Amore non opera a caso o in Non bisogna in amor correre a furia) e schemi piú complicati e romanzeschi (come negli Inganni lodevoli o negli Amanti senza vedersi e nei Genitori corretti dai figliuoli[16]), si impongono per una migliore vivacità di movimento e per un senso piú acuto di riuscita rappresentazione della vita contemporanea Il marito alla moda e, piú ancora, Il Cavalier Parigino ovvero Aver cura di donne è pazzia (tutte e due del 1734-1735).

Nella prima, che ha per scena una villa e un’osteria di campagna, ma abitate e frequentate da cittadini o da campagnuoli piú accorti e misurati dei vecchi personaggi delle commedie rusticali (come Ciapo divenuto oste, ma assai piú misurato nella piacevole loquacità, nelle sue facezie contadinesche), si intrecciano due vicende che uniscono insieme la satira bonaria e poco impegnativa della «moda» ed un elemento fra comico e patetico sullo sfondo di una modesta rappresentazione di vita familiare, insaporita da scenette assai delicate: come quella del piccolo Anselmino che trotterella a cavallo d’un bastone o l’arrivo dei tre pellegrini visto dalla finestra dell’osteria, o la scenetta fra Menica curiosa e Anselmino interrogato sulla vera identità della madre.

Isabella, figlia del vecchio Anselmo Taccagni, è stata promessa in moglie al giovane possidente Sempliciano Dolciati, sciocco e tardo (una di quelle figure melense di «buffo» che il pubblico fiorentino tanto amava nelle commedie del Fagiuoli). Essa non lo vorrebbe malgrado la sua ricchezza, specie quando arriva in paese Orazio con una donna ed un bimbo che presenta come la propria sorella vedova ed il proprio nepotino, mentre in realtà egli è il fratello di Isabella e la presunta sorella, Lidia, è invece la moglie sposata durante un viaggio a Venezia, dove egli aveva scialacquato i capitali datigli dal padre per commerciare e, ridotto in miseria, non aveva dato piú notizia in patria, tanto che era stato creduto morto.

Isabella si innamora di Orazio che inizialmente la asseconda, mentre insieme a Lidia studia la maniera di rientrare nelle grazie del padre, di farsi riconoscere e perdonare. E Lidia con la sua astuzia di donna saggia e briosa (ed è questa la figura piú viva della commedia e quella che fa in qualche modo pensare a simili figure goldoniane) intenerisce l’animo del vecchio avaro e, quando addirittura lo ha fatto innamorare di sé, rivela tutto ed ottiene il perdono per sé e per il marito. Sicché Isabella dovrà rassegnarsi a prendere per marito Sempliciano che intanto, sopportando la simpatia della fidanzata per Orazio e facendo tesoro dei consigli di Menica, si è fatta un’ottima educazione di «marito alla moda», assicurando fra l’altro che non disturberà mai la moglie quando questa riceverà visite di corteggiatori e si assoggetterà in tutto e per tutto al nuovo galateo del cicisbeismo.

Si scartino senz’altro i noiosissimi monologhi e le scene dell’amore di Isabella per Orazio, in cui il Fagiuoli riprende addirittura formule da repertorio secentesco o da commedia italospagnuola (la parte degli innamorati rimane la prova piú difficile per questi commediografi prima del Goldoni), e si limiti nella sua comicità piú farsesca (una farsa sempre affidata tutta al parlato) la satira del «marito alla moda» (e pure certi dialoghi di Sempliciano con Anselmo e con Menica – atto I, sc. V; II, sc. I-VII – se non fossero troppo allungati avrebbero una efficacia grottesca in un crescendo di domande assurde e di sciocchezze cosí madornali). Ma al centro della commedia la rappresentazione della vita della famigliuola di Orazio (con toni che sfiorano i modi della commedia sentimentale e borghese) e soprattutto l’azione di Lidia, nel fare innamorare il vecchio Anselmo e nell’obbligarlo a perdonare al figlio, son veramente risultati notevoli e il movimento piú delicato e sottile nella figura di Lidia corrisponde ad una migliore capacità tecnica di movimento sulla scena (specie la scena III del II atto), di graduazione del dialogo, al di là del semplice effetto piacevole (e alla lunga fastidioso) del parlato scherzoso e caricaturale.

Migliore poi la seconda commedia, in cui la rappresentazione comica della «moda» è piú aperta e centrale e, se vi manca una figura cosí interessante come la Lidia della commedia precedente, maggiore vi è la ricchezza di figure comiche, assai bene intrecciate fra loro; maggiore anche (seppure privo di certi toni piú delicati del Marito alla moda) il senso della vita quotidiana nell’interno di una casa settecentesca, viva nei colloqui domestici (tipica la scena quarta del primo atto con «Isabella che cuce e Menica che fa la cordellina»), nelle scenette lievemente satiriche del costume contemporaneo (Frasia alla toletta e il consulto sulla collocazione del neo all’inizio della scena XIV del I atto) che si distaccano nettamente dall’ambiente piú convenzionale delle prime commedie a sfondo rusticale.

E in questa atmosfera piú viva e circostanziata (che corrisponde al crescente gusto settecentesco di scene precise, di vita contemporanea portata nel teatro) c’è in questa commedia un senso piú preciso del motivo di costume che è al centro dell’azione: il contrasto tra il nuovo modo di vivere, nel suo eccesso di libertà, di galanteria, di frivolezza (rappresentato dalla casa di Frasia Tarlati), e la chiusa vita familiare tradizionale, gelosa e sospettosa (rappresentata dalla casa di Anselmo Taccagni), con il contrasto, nell’interno stesso della prima casa, fra la spensierata e ridicola galanteria della vecchia, smaniosa di vita elegante e socievole e di nuove nozze, e il buon senso della giovane Cintia che per la nausea di una vita cosí frivola finirà per scegliere la vita conventuale, e, nella seconda, fra l’avidità gretta e gelosa del vecchio Anselmo e il naturale desiderio di amore e di libertà della figlia Isabella.

E se il linguaggio non riesce bene ad adeguare, nella sua volontà di rappresentazione e di satira bonaria, quel tono di eleganza e di sfumatura di cui sarà maestro il Goldoni, certo questo sforzo del vecchio Fagiuoli è da calcolarsi come interessante adesione ai modi di un Settecento piú avanzato e come apertura, in lui nuova, agli aspetti della vita contemporanea.

Ma anche in questa commedia il motivo di costume e la moralità che la deve sostenere (gli eccessi della moda e gli eccessi della tradizione) finiscono, per la intrinseca debolezza del Fagiuoli, per sciogliersi in una soluzione poco impegnativa e poco convincente. «Aver cura di donne è pazzia», ogni donna seguirà la sua vocazione ed attuerà il suo desiderio e tutto si concluderà con il ricorso ad un motivo comico farsesco: le trovate del servo Scappino che riesce ad ingannare la custodia gelosa del vecchio Anselmo e addirittura a fargli «consegnare di propria mano la figlia all’amante, col quale questa si sposa», mentre la vecchia Frasia sposa Arsilio, cicisbeo alla cerca di una ricca dote, e Cintia si ritira in convento.

Sicché nello svolgimento della commedia va prevalendo (anche se piacevolmente intrecciato con la rappresentazione del motivo di costume: e si pensi alle scenette di Scappino travestito da chincagliere in casa di Anselmo) il motivo farsesco, che culmina nelle scene IV e XIII del II atto, in cui Scappino, travestito da cavaliere parigino, con il suo ridicolo misoginismo e sfruttando l’avarizia di Anselmo, inganna il vecchio geloso.

E si noti come anche qui piú dell’azione il Fagiuoli segua e realizzi, secondo la sua natura, il giuoco degli effetti comici del parlato, sia nel buffo misoginismo del falso cavaliere che non può neppure sentire nominare le donne (e Anselmo dovrà ricorrere a buffe perifrasi, dovrà mascolinizzare i nomi femminili), sia, e piú, negli equivoci provocati dall’approssimativo francese di Scappino.

Anche queste ultime commedie insomma confermano, nello sforzo maggiore del Fagiuoli, i chiari limiti della sua natura, della sua forza comica piú disposta ai risultati di un dialogo burlesco e piacevole (e alla lunga fastidioso e ciarliero) che non ad un organismo intimamente comico.

Tuttavia ai contemporanei toscani le commedie del Fagiuoli sembrarono un importante esempio di nuovo teatro comico ed esse, se non riuscirono ad imporsi sui teatri veri e propri (abbiamo visto come il Cicisbeo sconsolato venisse diffuso nell’Italia settentrionale solo nella riduzione a scenario fattane da quell’Adriani che è piú noto come autore delle Metamorfosi di Pulcinella), e se il Goldoni (che si riferiva però alle commedie rusticali) poté giudicarle importanti per «semplicità e natura», non «per interesse ed arte», furono considerate da vari scrittori fiorentini di metà secolo non solo come capolavoro di linguaggio «faceto» (alla stregua dei capitoli), ma proprio come l’opera di un «nuovo Terenzio» (e a Terenzio dichiarò di volersi ispirare lo stesso Fagiuoli[17]), di un riformatore, ammirevole per l’insieme delle qualità che essi ingrandivano, scambiando la realtà con i loro desideri.

Cosí Andrea Pietro Giulianelli, nella sua orazione funebre detta il 20 dicembre 1742 nell’Accademia degli Apatisti (e riportata alla fine del VII volume delle Commedie), poteva valutare entusiasticamente non solo la vivacità del linguaggio del Fagiuoli, il suo esempio di commedia tutta scritta, la sua trasformazione di maschere in personaggi della vita contemporanea, la semplificazione dei «viluppi», ma proprio (richiamando esplicitamente la proposta del Muratori) una scuola insieme di «ben vivere» e di «costume», di «natural rappresentazione di ragionevolezza e convenienza» «de’ costumi dell’età sua e delle passioni degli uomini», rappresentati in commedie «ben condotte» e «adornate colle bizzarre invenzioni degli accidenti e colla proprietà del terso parlare maestrevolmente distese»[18].

Sicché il Fagiuoli veniva proclamato «il graziosissimo Terenzio de’ nostri tempi» e si indicava in lui lo scrittore che aveva finalmente riformato il teatro comico dopo la barbarie del Seicento tutto dedito «ad un meraviglioso chimerico, senza verun riguardo alle leggi dell’onestà, della ragionevolezza, della naturale imitazione».

Una valutazione che sembra corrispondere, piú ancora che alla concreta opera del Fagiuoli e alla sua volontà programmatica poco impegnativa e modesta, alle intenzioni piú chiaramente rinnovatrici dell’altro commediografo toscano del primo Settecento: Jacopo Angelo Nelli.

L’opera di Jacopo Angelo Nelli appare indubbiamente, pur nelle particolari condizioni della tradizione toscana, piú legata, rispetto a quella del Gigli e del Fagiuoli, alla precisa volontà programmatica dell’Arcadia e piú aperta ad una maggiore precisazione concreta della civiltà letteraria del «buon gusto», a una maturazione della società settecentesca con i suoi ideali di eleganza, di misura, di socievolezza, di spontaneità e razionalità accordate su di un piano di consapevolezza che appare men sicuro nell’opera festosa ed impetuosa del Gigli (piú fortemente satirica e meno curante di eleganza e misura), o in quella del Fagiuoli, che, malgrado le sue commedie piú tarde, rimane piú vicino alle condizioni della cultura fiorentina di fine Seicento nel suo lato piú capitolistico ed accademico, con prevalente interesse linguistico.

Insomma l’opera del Nelli, che quanto ad ispirazione non supera davvero l’estrosa forza del Gigli, appare, nella storia del teatro di primo Settecento, piú «moderna», piú «settecentesca» e, per le sue intenzioni programmatiche, piú vicina al programma innovatore goldoniano.

Poco sappiamo della vita del Nelli[19] e non possediamo di lui che un numero assai limitato di lettere che ci permettano di ricostruire, come per il Gigli e il Fagiuoli, una vita di sentimenti e un preciso atteggiamento nella cultura del tempo, fuori delle sue commedie.

Tuttavia, dallo scarso materiale a nostra disposizione[20] e da alcuni spunti delle sue stesse commedie e delle sue prefazioni, si può ricavare il ritratto di un uomo pensoso e consapevole dei propri impegni e doveri civili, equilibrato e prudente, seriamente convinto degli ideali etici della nuova cultura razionalistica, che egli accetta come valori ormai diffusi e affermati nella società in cui vive: tipico uomo del Settecento arcadico e razionalistico, fiducioso nell’ideale centrale di una civiltà razionale e moderata[21], paurosa di eccessi anche nel proprio razionalismo ed attenta a distinguere accuratamente, mediante il criterio del «buon giudizio» (equivalente morale ed intellettuale del «buon gusto» in letteratura), una conquistata libertà nei rapporti socievoli (contro la rozzezza e la grettezza del passato) da una pericolosa licenza di costumi, di cui il Nelli dipingerà le conseguenze drammatiche, con accenti di moralista preoccupato e non privo di pedanteria, nella commedia Gli allievi delle vedove.

In questa commedia, il Nelli attraverso un personaggio saggio e virtuoso, Filodoto, esprimeva la sua equilibrata e prudente morale, che, mentre approvava un nuovo modo di vivere onesto e lieto, socievole e libero, ne condannava gli eccessi licenziosi seguendo, con i suoi non accettati consigli e con la propria severa diagnosi, la catastrofe di due famiglie: in cui, per la debolezza di due vedove dedite alla vita elegante e troppo indulgenti con i propri figli, questi passano rapidamente dalla disobbedienza e da puerili scapestrataggini ad azioni immorali e delittuose.

E sull’esito tragico, artisticamente fallito (ché il Nelli non aveva alcuna forza tragica e finí in questa unica prova per calcare le tinte fino al grottesco) ma interessante per questa vocazione morale e moralistica del Nelli, Filodoto, nel suo tetro monologo finale, eleverà piú apertamente la riprovazione di una vita condotta «non dalla ragione», ma «dalle sregolate passioni», da parte di una concezione della vita «né libertina né bigotta», mondana e moralmente guardinga, pronta d’altra parte ad opporre il «buon giudizio» e l’inseparabile binomio «ragione e natura» ad ogni stortura morale e letteraria.

Come avviene nella Dottoressa preziosa, in cui, piú del padre tradizionalista, l’innamorato Cleante, concreto, saggio e «moderno», convincerà la giovane vedova – guastata dalla falsa letteratura romanzesca ed inverosimile, da un ideale assurdo di amore romanzesco e tutta invasata di un preziosismo spropositato e secentistico – con i solidi argomenti di un amore naturale e civile, e con il buon gusto di «discorsi naturali» e di «pensieri seri ed interessanti».

Sicché alla fine della commedia (notevole piú come documento culturale che come vero risultato artistico[22]), mentre il servitore Pippo si rallegra perché la vittoria del buon senso e la cacciata del falso poeta e dotto, Terenziano (pallida copia del molieresco Trissotin delle Femmes savantes, risentito attraverso qualche caratteristica del Don Pilone del Gigli), gli permette di non dover «lambiccarsi il cervello a trovar paroloni» (Saforosa esigeva dai servi un linguaggio classicheggiante, cruschevole e prezioso), la servetta Plautina esalterà le proprie ed altrui fatiche «per isdottorar una falsa dottoressa, riaddottorarla nel buon senso e renderla meritevole della laurea di donna savia e prudente, secondo la vera dottrina e buon gusto».

Buon senso, buon gusto, vera dottrina, donna savia e prudente: ecco gli ideali del Nelli e della sua epoca. E questi ideali, come l’antipatia per l’inverosimiglianza e l’innaturalezza (punti essenziali nello stesso programma goldoniano), si ritrovano chiaramente esposti ed organizzati in funzione di una «commedia moderna» nelle diverse lettere-prefazioni che il Nelli scrisse negli anni piú maturi, quando la sua attività di commediografo si fece piú esclusiva ed impegnativa[23].

In queste prefazioni (assai interessanti per la storia della commedia del primo Settecento fra le proposte dei teorici d’Arcadia e il Teatro comico del Goldoni) il Nelli si preoccupa soprattutto di difendere un coerente programma di rinnovamento, basato essenzialmente sulla verisimiglianza, sulla naturalezza e sulla organicità dell’opera. Alla proprietà e correttezza stilistica (per la quale anche il Nelli fece particolari studi linguistici e scrisse persino una grammatica italiana per proprio uso e consumo), alla eleganza e chiarezza devono corrispondere, piú in profondo, l’organicità, la verisimiglianza, la naturalezza; e l’essenziale scopo morale ha d’altra parte bisogno di una rappresentazione efficace della vita contemporanea, di personaggi vivi e convincenti.

Sicché, riferiti i soliti precetti classici della commedia che castigat ridendo mores e dell’omne tulit puctum qui miscuit utile dulci, il Nelli si preoccupa soprattutto che la rappresentazione dei vizi e delle virtú «piú in uso e alla moda» sia il piú possibile «ben circonstanziata», ben rilevata («nella piú chiara veduta» e «in buon lume»), che «l’imitazione de’ caratteri sia giusta, verisimile e continuata, e che siano rappresentati specialmente quali siano gli uomini, ch’è la piú efficace, la piú utile e la piú dilettevole imitazione delle tre che ne pone Aristotele: quali le persone sono, quali dovrebbero essere, quali ci immaginiamo che siano»[24].

E la richiesta della verisimiglianza mediante le precise «circostanze» e l’evidenza, continuità e verità dei «caratteri moderni», si unisce a quella della organicità e complessità ben articolata della commedia, del suo movimento generale, a cui devono servire le singole scene, mai fine a se stesse e mai d’altra parte sacrificate ad uno schema troppo rigido e ridotto: «La prego considerarle non in se stesse, ma bensí unite e correlative all’orditura della favola; mentre ciascheduna mi par che serva o a far letto o a dar scioglimento o ragione di qualche fatto»[25].

Il Nelli appare dunque – sulla base della precettistica classica e delle piú moderne esigenze arcadiche – ben consapevole delle qualità desiderabili in una commedia «moderna», corrispondente alla nuova cultura razionalistica, al bisogno di una rappresentazione non farsesca o romanzesca, ma organica nel suo nucleo poetico-etico, nel suo legame con la vita del tempo, nella sua coerente costruzione complessa ed unitaria in ogni particolare: dai personaggi organici nel loro carattere, e dal loro incontro efficace e giustificato, alla coerenza dell’azione e delle scene in cui si svolge, allo stesso linguaggio che il Nelli vuol sí insaporito, secondo la tradizione toscana, di proverbi, modi di dire popolareschi e comici (ma chiari e comprensibili e magari accresciuti e rinnovati in creazioni personali purché efficaci e divulgabili[26]), ma che soprattutto desidera preciso e «corrente», «corretto» ed agevole secondo una formula di eleganza chiara ed efficace che ci porta anch’essa ad una fase piú avanzata del gusto arcadico. Come a questa ci conducono molte caratteristiche di contenuto e di poetica del commediografo senese, che, piú di altri scrittori arcadici, mostra pure di avere piú precise preoccupazioni tecniche circa l’esecuzione teatrale, la recitazione dei buoni attori, la differenza di effetto di un testo fra lettura e spettacolo[27].

E se le preoccupazioni morali hanno grande posto nel suo programma (con la solita prudenza arcadica di colpire i vizi «senza offender però l’onestà pubblica»), il Nelli sente – coerentemente al desiderio di un’opera organica, ben legata e articolata, efficace e senza dispersioni ed indugi[28] – l’essenziale ed ovvia necessità che le commedie abbiano «varietà, movimento e fuoco in se stesse» («altrimenti riescon sempremai fredde e rincrescevoli»[29]), siano insomma insieme «istruttive, saporite e piacevoli», animate e ben diverse da una «lezione morale». Ed è proprio qui che il Nelli sentí di piú i propri limiti, specie di fronte al Gigli da lui molto ammirato (anche se elogiato in forma cosí poco aderente se lo proclamava «nuovo Terenzio» proprio per l’irruente, dispersiva e ben poco castigata Sorellina di Don Pilone)[30].

Molte volte nelle lettere di prefazione egli cerca di scusarsi della mancanza di «franchezza e libertà poetica», di «fuoco comico», adducendo la fretta o spiegando l’eccessiva lunghezza di una commedia con la necessità di creare piú scene e personaggi per contentare i propri attori, cavalieri numerosi e suscettibili[31]. Egli avvertiva dunque i propri limiti e ripiegava spesso, malgrado i suoi propositi, sul farsesco (anche se ridotto a forme castigate e stilisticamente corrette), sui «sali e facezie», sull’accademico gusto del parlato spropositato ed equivoco anche se senza l’insistenza tipica del Fagiuoli.

In realtà, quando si passa dal campo del programma e delle intenzioni a quello dei risultati, ci si accorge che il Nelli – pur possedendo notevoli capacità tecniche (le verificheremo specie nella Suocera e la nuora) e rappresentando indubbiamente un momento importante nello svolgimento del teatro comico del primo Settecento con la sua aspirazione ad un’opera organica e capace di reggersi da sé (per adoperare parole goldoniane) come costruzione misurata e dotata di quei caratteri di verisimiglianza, di chiarezza, di naturalezza, di modernità a cui la sua epoca tendeva – non possedeva una vis comica adeguata e lo stesso ritmo dell’azione, piú armonico e coerente che nel Fagiuoli e nel Gigli (se si esclude la particolare situazione del Don Pilone), subisce nelle sue opere come un progressivo rallentamento, un indebolimento che sembra richiedere piú che tagli di scene inutili o parentetiche (come spesso avviene nel Fagiuoli) una mano piú energica che raddensi le parti piú diluite e piú stanche.

Cosí come il suo linguaggio, notevole per un’eleganza media, per una forma di parlato piú comune e corrente, piú moderno e fluido, manca di quella intima vivacità, di quella vibrazione e animazione che, al di là della risentita originalità del Gigli e della piacevolezza del Fagiuoli, sarà cosí costante nel Goldoni anche nelle sue opere piú artigianali e meno poetiche.

La coerenza del ritmo si fa spesso monotonia e la fusione del linguaggio opacità, grigiore, sí che le sue commedie in generale valgono piú come documento di una tecnica teatrale piú avanzata e corrente che non come opere artisticamente vive e convincenti. E tali limiti essenziali non vengono interamente superati neppure in quelle due commedie della sua maturità, Le serve al forno e La suocera e la nuora, che pure si staccano dalle altre sue commedie per una maggiore originalità e per un’attuazione migliore del suo programma.

A questi due risultati migliori (e davvero interessanti tecnicamente sulla via della commedia goldoniana, tanto che pare strano che il Goldoni non le abbia conosciute ed apprezzate[32]) il Nelli giunse attraverso un esercizio assai lungo e faticoso, mal precisabile nel suo percorso creativo per mancanza di una cronologia sicura, ma abbastanza facilmente rappresentabile in sintesi come passaggio da opere piú vicine alla commedia italo-spagnola (come il Viluppo e Gli amori tra gli sposi non conosciuti, cosí indicativi nel titolo, e degli anni 1709-1710) e da opere piú apertamente farsesche, con utilizzazione degli scenari della commedia dell’arte (la cui presenza, ripresa con le nuove esigenze di regolarizzazione e di caratterizzazione, è piú evidente in commedie come i Vecchi rivali o Il geloso in gabbia[33]), ad opere che, sull’esempio del Molière e dei minori commediografi francesi di fine Seicento, puntano piú decisamente su di una preminenza del personaggio centrale (come avviene ad esempio nella Moglie in calzoni con il rilievo assai riuscito della virile e caparbia Ciprigna, e come avveniva già precedentemente con la Pasquina della Serva padrona), o tentano una piú vasta rappresentazione di vita «moderna» con la piú chiara accentuazione moralistica degli Allievi delle vedove.

In questi tentativi diversi, ed interessanti per il modo con cui il Nelli utilizza l’intrigo della commedia eroicomica e la vivacità comica degli scenari (vivo esempio della difficile situazione di una commedia che voleva regolarità, verisimiglianza, organicità e insieme non voleva perdere l’interesse dell’intreccio e la vivacità della pura azione comica evitando la pura restaurazione classicistica e la commedia per letterati)[34], è interessante anche il modo con cui egli volle sfuggire al semplice rifacimento delle commedie francesi cercando invece di imitarne i procedimenti e di servirsi di figure, spunti, motivi molieriani (come abbiamo già visto parlando della Dottoressa preziosa), senza pregiudicare la fondamentale esigenza di una commedia originale nel suo centro inventivo e nella sua generale costruzione: conferma anche questa di come il Nelli, mentre utilizza spregiudicatamente scenari, commedie secentesche e commedie molieriane (quelle che piú lo stimolarono ad una commedia etica ed organica), tenga a superare quello stadio di traduzioni e rifacimenti che il Goldoni considerò come il primo passo nei tentativi di rinnovare la commedia italiana.

Attraverso le commedie minori il Nelli si preparò (con l’accompagnamento essenziale delle sue dichiarazioni programmatiche) alle due commedie maggiori, in cui – pur nei limiti di rallentamento e di opacità già notati – egli fece il suo sforzo piú intenso e dette la miglior prova delle sue capacità tecniche, specie nell’incontro dei personaggi, nel taglio delle scene, nell’accordo fra parlato e movimento scenico: e abbiamo visto piú volte come proprio in quella ricostituzione dell’organismo teatrale, anche da un punto di vista meramente tecnico, i commediografi arcadici avessero incontrato la maggiore difficoltà, mentre erano piú facilmente riusciti nella ricostituzione del discorso nelle singole parlate o al massimo nei duetti.

Nelle Serve al forno il Nelli fa la prova piú ardita di dar vita e voce ad un mondo curioso e pettegolo, vario e mosso, né d’altra parte (come dice il Sanesi) privo di personaggi piú individuati (e del resto il Nelli tende nelle sue commedie piú mature piú che al predominio di un unico personaggio all’incontro di diversi personaggi, alla loro mutua sollecitazione): quali sono il vecchio Agridemo, avaro, geloso e innamorato della pupilla, Simplicia, e questa stessa piacevolissima figurina di fanciulla ingenua nel suo pudore, nella sua credulità, nel suo improvviso innamoramento (e una volta almeno il Nelli sa ottenere con delicatezza, se pure con qualche concessione a doppi sensi poco rilevati, quella difficile voce degli innamorati che aveva mantenuto la sua rigidezza convenzionale e secentesca nel Gigli e nel Fagiuoli), e quali sono, piú che i fornai Palandrone e Palandra (troppo sentenziosi e saccenti), le tre serve, Poppiona, Cuttremola e Fregola, con le loro sfumature personali che si riflettono nel loro linguaggio (fiorentino piú stretto o piú campagnolo, e toscano meno precisato) assai vivace e spregiudicato nella sua popolarità leggermente raggentilita nei modi autorizzati dall’Arcadia (linguaggio «plebeo», ma non «vile»).

Nei loro pettegolezzi sulle faccende dei loro padroni, nella narrazione dei loro amorazzi e soprattutto nelle liti in cui a vicenda scoprono le proprie magagne, le tre serve intrecciano assai abilmente le loro voci, specie nelle prime scene (I atto, sc. II e III), quando queste entrano successivamente e fanno coro insieme a quella del servo Rattoppa che interviene a far convergere su di sé l’interesse e la simpatia delle tre ragazze, ad eccitare la loro gelosia ed i loro contrasti.

Questo centro assai vivo di interesse (il forno e la strada su cui questo si apre) è poi annodato, attraverso Rattoppa e la balia Poppiona, all’altro centro di scena e di azione: la casa di Agridemo e di Simplicia, presa fra l’amore per il giovane Leandro (padrone di Rattoppa) e la gelosia del tutore Agridemo nelle cui grazie invano tenta di entrare Leandro.

Ma poi sulla buona impostazione iniziale il ritmo vario e complesso va al solito perdendo di vigore e il movimento dell’intrigo fra casa e forno (sorretto dalle trovate di Rattoppa e Poppiona per agevolare l’amore dei due giovani e ingannare il vecchio Agridemo) si fa sempre piú stanco ed esterno, mentre i successivi incontri delle tre serve van perdendo, con la ripetizione, interesse e l’animazione delle loro voci plebee va scemando e rivelando quella fondamentale opacità che il Nelli non riesce mai a superare completamente: sinché l’intervento del padre di Simplicia, tornato dalla prigionia barbaresca, risolverà la commedia con le nozze dei giovani in un finale piú corretto e logico che comicamente efficace.

E dunque, anche su questo piano piú alto, la buona condotta della commedia, la sua intelligente impostazione come rappresentazione di un ambiente in movimento, le sue innegabili qualità tecniche e sceniche, la migliore individuazione di figure e voci nel loro incontro e nelle loro sfumature ben graduate, vengono a smorzarsi nella fondamentale monotonia ed opacità del Nelli, che ne riduce l’effetto complessivo e ne diluisce la forza ed il ritmo, che si fa sempre piú allungato e ripetuto nelle sue volute ampie e indugianti.

E la commedia ci appare piú interessante nel suo disegno, nella sua impostazione, nei suoi procedimenti generali che nella realizzazione minuta e concreta.

Limiti presenti persino in quella commedia, La suocera e la nuora, che meglio di ogni altra può far pensare (come disegno e come invenzione di tema, per la sua viva attenzione ad una vita nel chiuso di una casa settecentesca, per le sue abili soluzioni sceniche e dialogiche) alle commedie goldoniane: ed anzi il Sanesi, che per le Serve al forno pensò alle Massere o ai Pettegolezzi delle donne, per questa pensò alla Famiglia dell’antiquario (che ha per sottotitolo anche La suocera e la nuora) e addirittura disse che il senese seppe trattare il tema del contrasto fra suocera e nuora «con forza piú schietta e con piú viva franchezza»[35].

In realtà, se non vale neppur la pena di discutere un simile giudizio, tanta è la sostanziale differenza di poesia tra Nelli e Goldoni (e basterebbe pensare alla bellissima figura di Doralice e alla compattezza vibrante delle scene centrali della commedia goldoniana in confronto con il II atto smorzato e inconcludente della commedia nelliana), l’avvicinamento fra le due commedie può essere suggerito non solo dalla somiglianza di argomento, ma anche dalla generale impostazione teatrale della commedia nelliana che, nella corrispondenza alle esigenze programmatiche del Nelli, rappresenta una concezione della commedia assai vicina a quella della riforma goldoniana.

E se altrove il Nelli mostra piú chiari residui di elementi farseschi non sempre ben fusi (qui vi sarà solo una certa concessione nel secondo atto – travestimenti ed equivoci che ne derivano – e nella burla giuocata al cicisbeo intrigante rinchiuso nella cantina), in questa commedia egli si mostra piú sicuro e moderno, capace di rendere in un organismo articolato e concluso una modesta avventura domestica, interessante per la sua «modernità», per la bonaria satira di manie e «vizi alla moda», per la rappresentazione nei personaggi e nell’azione di un momento di vita comune. E anche se poi, per paura della «liscia naturalezza», il Nelli non dimenticherà certi espedienti piú farseschi già accennati e il gusto fagiuoliano di equivoci del parlato, tutto ciò sarà piú misurato e la comicità sarà cercata soprattutto nella situazione stessa, nella efficacia naturale dell’urto fra i personaggi.

Il disegno di questa commedia è piú chiuso e delimitato di quello delle Serve al forno, che tendeva ad un movimento tra due centri scenici e al vario giro dei pettegolezzi e degli intrighi delle serve e di Rattoppa, e si può dire che, se poi la complicazione di Bireno e delle sue trame coincide con la maggiore faticosità dell’azione e del ritmo piú lento ed incerto, l’impostazione del contrasto delle due protagoniste nel contrappunto costituito dai due mariti e dai servi (specie la servetta Zughetta che è una Dorina piú castigata e meno impetuosa) è davvero chiara e felice e tutto il I atto e il finale della commedia, che alla soluzione di questo contrasto piú direttamente è rivolto, sono (a parte il Don Pilone del Gigli) gli esempi piú notevoli di una tecnica comica elaborata e rispondente alle nuove esigenze settecentesche prima del Goldoni.

Si rilegga il primo atto e si noterà come felicemente il Nelli abbia saputo presentare le due donne (Litigia, la suocera, caparbia e desiderosa di non perder terreno nella propria casa e nella vita galante, nell’iniziale battibecco con il placido marito Pasquale, desideroso solo di quiete familiare, di pranzi piacevoli e tranquilli; Agrida, la nuora, avventata e orgogliosa della sua avvenenza e della sua gioventú, nel dialogo con Zughetta che la eccita contro la suocera) con la loro gara di puntigli, con la loro affermazione di libertà e di padronanza sui servitori e sull’andamento della casa. Il contrasto è colto in un momento tipico della vita familiare: Agrida è uscita presto di mattina per partecipare ad una cioccolata in casa di amici e Litigia, per non esser da meno, se ne va al passeggio facendosi accompagnare, in mancanza di meglio, dal cuoco Zeppa, proprio quando questi dovrebbe preparare il pranzo, mentre l’interessato Bireno, che approfittando delle liti domestiche vorrebbe arrivare al suo scopo (sposare la figlia di Litigia), accresce nelle due donne il reciproco risentimento e i due mariti (Pasquale e il figlio Filidauro) tentano invano, con l’aiuto dell’amico Onorato, di riportare pace e ordine nella casa.

E il movimento dell’azione, seguito sulla direzione delle due donne, viene poi condotto a culminare nelle scene finali (XV-XVIII) che danno la migliore misura di questa capacità di scena ben tagliata, di incontro di personaggi e di voci nella sicura atmosfera di una casa settecentesca. Specie quando, all’inizio del pranzo, il malumore delle due donne (preparato in Agrida dalla sconvenienza della suocera che ha portato via il cuoco, quando doveva preparare il pranzo, e in Litigia dall’intollerabile offesa della nuora che ha voluto cominciare a mangiare senza attendere i suoceri, mentre il prudente Filidauro, diviso fra l’amore per la moglie e il rispetto per la madre, sta seduto un po’ discosto dalla tavola senza mangiare, ma incapace di impedire alla moglie che cominci da sola il pranzo) passa dalle prime battute piú sommesse, dal reciproco punzecchiarsi, all’alterco e alle offese piú gravi e le due dame si alzano in piedi furiose, provocando finalmente lo sdegno di Pasquale, che invano aveva tentato di calmarle e che perde la pazienza quando vede l’impossibilità di proseguire in pace il suo pranzo. I due mariti conducono via nelle loro stanze le mogli e i servitori commentano allegramente il diverbio e concludono la scena andandosene a mangiare in cucina le pietanze lasciate intatte dai padroni.

Orbene, chi pensi alla difficoltà dei commediografi di primo Settecento a passare dal monologo e dal duetto all’incontro, al concertato di piú voci, all’accordo fra atti e parole, ad ottenere comicità da scene semplici, misurate, svolte senza indugi ed intoppi, espresse in un linguaggio corrente ed omogeneo, fluido e moderno, non potrà non riconoscere qui una conquista notevole, un risultato teatralmente convincente, anche se ben distinguerà un simile risultato dalla forza animata ed elastica che in una simile situazione avrebbe spiegato un Goldoni.

Ed è su questo piano medio, non certo di grande arte, ma di letteratura teatrale matura e ben adeguata alle esigenze di un discorso comico omogeneo, di una capacità di scena semplice e naturale (quale il programma arcadico richiedeva), che va considerato anche il finale della commedia, quando il ritmo dell’azione, che nel secondo atto e nella prima parte del terzo si è andato al solito progressivamente rallentando nel lungo svolgimento dei maneggi di Bireno, dei tentativi di pacificazione dei due mariti e di Onorato, delle avventure delle due donne (a cui non è servito neppure l’ammaestramento di una commedia che prospetta la loro identica situazione), ritrova una misura migliore, una vivacità di dialogo e un gusto di scena che si possono esaminare in ogni particolare costruttivo e rivelano in questo modesto commediografo un possesso nuovo di tecnica, una padronanza di mezzi espressivi che gli permettono di realizzare pienamente i suoi rari momenti di maggiore felicità ispirativa, il suo bonario mondo di saggezza e di equilibrio.

Sicché appare inutile anche il rimprovero del Sanesi alla scarsa forza risolutiva di questo finale (come si pacificheranno le due donne nella reciproca lontananza?) perché il Nelli, superato il momento di moralismo piú crudo degli Allievi delle vedove, tendeva a soluzioni come questa, sorridente ed agevole, corrispondente ad una moralità fiduciosa nella misura e nel compromesso, nella virtú del buon senso che nella voce di Onorato suggerisce non una definitiva rottura dell’unità familiare o un severo castigo delle due donne, ma un allontanamento che le renda piú giudiziose e piú prudenti (nell’esame dei loro difetti aiutato dalla solitudine che renderà piú forte in loro il desiderio della vita familiare e di una piú saggia fruizione della vita cittadina e «alla moda») e che intanto permetta a Filidauro e a Pasquale un salutare recupero della loro pace turbata.

Ma, sulla base di questa soluzione cosí settecentesca, cosí adatta al gusto di una commedia «saggia e piacevole», si consideri soprattutto la piana, agevole felicità di queste ultime scene.

Eliminato l’intrigante Bireno con una burla, gli uomini della casa inducono le due donne a partire per due ville diverse (ed esse vanno col comune desiderio di farsi dispetto l’un l’altra). Tutti sono in abito da viaggio, in un’aria festosa ed eccitata di preparativi; ma i due mariti con una scusa non partiranno e gusteranno nelle parole di Zughetta la scenetta ultima dei litigi delle loro mogli sin all’ultimo mosse dal puntiglio di avere la carrozza piú bella e il segretario piú giovane e separate solo dalla pronta partenza dei vetturini. Rimangono sulla scena i due mariti che si rallegrano con Onorato per l’ottimo consiglio e Pasquale già pregusta un buon pranzo finalmente in pace.

Ma il Nelli vuol dare al suo finale un ultimo guizzo di vivacità, dare alla distensione sorridente un ultimo piacevole fremito di turbamento.

Pasquale crede di sentire un rumore di carrozze, e trema al pensiero che si tratti delle due donne che ritornano indietro e manda Zughetta a vedere. E intanto si appena, malgrado le assicurazioni di Onorato, e la sua frase è interrotta da Zughetta che ritorna tutt’affannata e conferma i suoi timori. Ma subito, mentre Pasquale si dispera e smania e Filidauro si prepara ad impedire alle donne di rientrare in casa, Zughetta spiega che è stata una sua burla, che le carrozze non eran quelle delle due donne, e Pasquale si riadagia nella beatitudine della sua pace riconquistata e, come prima prova della realtà di questa, invita il figlio e l’amico ad andare con lui «a bere la cioccolata al caminetto».

Non ci faremo certo indurre dalla bontà di queste scene, e in genere della commedia esaminata, ad elogiare indiscriminatamente il Nelli, ché in sostanza anche La suocera e la nuora non ci permette certo di dimenticare le forti limitazioni già fatte circa la sua incapacità a reggere il suo ritmo comico con uguale intensità, circa l’opacità del suo linguaggio privo di una vera animazione poetica e privo di quel fuoco di fantasia piú viva e impetuosa che abbiamo trovato nel Gigli.

Ma questa commedia ci permette di dare al Nelli il suo posto notevole nello svolgimento dei tentativi di teatro comico prima del Goldoni, di riconoscere la maturità della sua esperienza tecnica, del suo programma di riforma arcadica meglio commisurato alle esigenze di una società e di una cultura che si è andata precisando e maturando rispetto ai primi anni del secolo, di cui Maggi, Gigli e Fagiuoli sono piú chiaramente esponenti.

Nel Nelli il mondo settecentesco si esprime piú sicuramente e l’espressione comica si è fatta piú sicura, piú abile e fusa (dal movimento scenico allo scorrere piú fluido del dialogo), e il distacco dalla forme contro cui l’Arcadia era insorta si è fatto maggiore e piú abile insieme si è fatta l’utilizzazione di elementi presi da quelle. Anche se pure per l’opera del Nelli occorrerà dire, rispetto a quella del Goldoni (e a parte l’enorme differenza di natura poetica), che essa rimane piú limitata, anche quanto ad esperienza teatrale e quanto a possibilità di azione in un pubblico vasto e nazionale, dal suo regionalismo e dalla sua destinazione a teatrini di villa, di corte, di collegio.


1 Nato a Firenze nel 1660, di modeste condizioni, il Fagiuoli passò la vita a procurarsi piccoli impieghi pubblici o presso nunzi apostolici (in Polonia nel 1690) o presso il Cardinale Francesco Maria de’ Medici a Roma e a Firenze, o presso Ferdinando e Gian Gastone de’ Medici e poi presso il nuovo granduca lorenese, per sostentare la numerosissima famiglia. Morí nel 1742. Per la bibliografia v. nelle note del cap. X del II vol. del Settecento del Natali, ed. 1960. Particolarmente importanti da un punto di vista biografico le ricerche di fine Ottocento: M. Bencini, Il vero G.B. Fagiuoli e il teatro in Toscana ai suoi tempi, Firenze 1884; G. Baccini, G.B. Fagiuoli poeta faceto, Firenze 1888. Per una valutazione della sua cultura teatrale (le fonti) il cit. vol. del Toldo e un articolo di E. Re, Molière, Fagiuoli e Goldoni, in «Rivista d’Italia», 15 agosto 1911. Per giudizi critici, i volumi del Sanesi, Apollonio, Natali e l’articolo del Del Cerro, Un commediografo dimenticato, in «Rivista d’Italia», 1911.

2 Era la continuazione popolare, nel tardo Settecento e nell’Ottocento, della tradizione fiorentina delle facezie dei buffoni, dal Gonella al Piovano Arlotto al Pippo del Castiglioni. Questo mito popolare del Fagiuoli fu completamente sfatato solo dagli studiosi dell’ultimo Ottocento che, nella loro ricerca dei «precursori del Goldoni» (titolo significativo di uno scritto del Camerini nel 1874), ebbero il merito di rinnovare lo studio, almeno biografico, dei commediografi toscani di primo Settecento.

3 Rime piacevoli cit., I, capitolo XXVI.

4 Si legga questo Pitaffio al sepolcro di un bacchettone riportato a p. 151 del libro cit. del Bencini (si tratta di un esempio di «audacia» e perciò il Fagiuoli non lo pubblicò):

Arresta pure o passeggero il piede

al puzzolente avel se il cuor ti regge;

e mentre l’occhio tuo contempla e legge,

incerto il ciglio a quanto scritto vede:

qui giace un santo nuovo, che si diede

con riformarla, a trasgredir la legge,

fu lupo, e qual pastore entrò nel gregge,

non ci credeva e predicò la fede!

S’ingrassò con quel d’altri e fe’ l’austero,

fu diritto, e teneva il collo torto,

era bugiardo, ed apparia sincero;

però non ti fidar, lettor, sta accorto,

ch’ei non ti gabbi ancor nel cimitero;

chissà ch’ei non sia vivo e faccia il morto.

5 Rime cit., VI, p. 138.

6 M. Bencini, Il vero Fagiuoli cit., p. 163.

7 Quando morí il suo figlio maggiore, scrisse: «E se da me lo volle Iddio diviso / qui in terra, non mi duol, purché mi voglia, / con esso riunire, in Paradiso» (Rime, I, p. 48): che non è l’espressione di una superiore consolazione religiosa, ma l’effetto di un facile accomodamento, quasi un pretesto per non turbare la propria tranquillità. E piú tardi volgeva in burla la solitudine della sua vecchiaia: «Vi diedi i figli, e la consorte ancora / ultimamente diedivi i nipoti, / se lo volete, or vi darò la nuora» (Bencini cit., pp. 162-163).

8 All’inizio della sua attività il Fagiuoli scrisse anche odi, sul tipo di quelle del Filicaia, fece tentativi di stile piú complesso, ma già del 1686 sono i primi capitoli, ed egli ripiega su quel tipo di espressione piú adatta al suo temperamento, per cui già nel VI libro della Volgar poesia il Crescimbeni lo paragona a Berni e Caporali.

9 Del resto anche nel Goldoni le rare figure campagnuole (specie nei melodrammi giocosi) hanno qualcosa di arcadico, di convenzionale ben diverso dalla freschezza dei suoi personaggi cittadini, dei suoi pescatori, barcaioli e artigiani. E ciò limita di molto la forza nuova ed artistica del Feudatario su cui, anche recentemente, si è troppo insistito (si v. la mia postilla sul Givelegov e la mia scheda sull’articolo di F. Flora, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1959, p. 342).

10 Prefazione al vol. VIII dell’edizione Pasquali.

11 Esemplari, in questo senso, per una maggiore misura della discorsività briosa, prima della diluizione che predomina piú generalmente, i duetti fra Ciapo e Orazio o fra Lena e Isabella nell’Avaro punito (I atto, scene I e II, in Commedie, I) o quello fra Lena e Nanni in Un vero amore non cura interesse (I atto, scena V, Commedie, II), che si può riportare come esempio tipico anche di questa specie di idillio comico tutto risolto nel parlato campagnuolo con la sua comicità insita negli spropositi, nelle deformazioni delle parole, nel giuoco di un ingenuo patetismo amoroso ridicolizzato dal contrasto con il linguaggio comico e con la reazione lenta e poco perspicace di cervelli «grossi» ed elementari:

Lena: O Nanni, tu hai buone nuove stamane, n’ero?

Nanni: Con ch’i’ ti veggo, Lena mia garbata, non possan esser megghio, le non possano.

Lena: E pure ce n’enno delle cattive.

Nanni: O che c’è egghi, domine?

Lena: Io ti vo’ dire ogni cosa, perché a tene non posso tener nulla soppiatto; il padrone appunto ora mi ha fatto un certo cicalamento, che a dittela, m’ha intorbidito il cervello.

Nanni: Che t’ha egghi detto, il mie sennino?

Lena: M’ha fatto una lunga filastrocca di belle parole: e finalmente egghi è cascato a dimmi, che vuol parlare a mie pà, perché egghi ha un partito sprifondato per matrimoni.

Nanni: Tu non brulli, n’ero?

Lena: I’ non brullo; il nigozio è caildo caildo; or ora m’ha cicalato; vello, ch’egghi entra in culaggiri nella ragnaja.

Nanni: Catta de dua, ci mancherebbe questa! Ma tu, ch’ai tu risponduto?

Lena: Che vuoi tu, ch’i’ ghi rispondessi? Se a me non voluto dir ailtro; ma lo vuol dire a mie pà il resto.

Nanni: Ma to pà, poi l’arà pure a dire a tene una voilta.

Lena: E come mie pà me lo dirae, i’ sentiroe: e allora risponderoe.

Nanni: Ma che risponderai tue?

Lena: Quel ch’i’ risponderoe? Che io non vo’ marito, se io non ho tene, che se’ stato il me primo damo, e sarà l’uiltimo.

Nanni: E se lui riprica, che non mi ti vogghia dare?

Lena: E i’ terrò duro a dire che i’ non vogghio ailtro che tene.

Nanni: E se scoildandoti rispondere a codesto mo’, e’ ti bastona?

Lena: E’ mi potrebbe anche ammazzare.

Nanni: Starai tu sailda?

Lena: Com’una macine. E tu, se anche il to’ padrone ti volesse dar mogghie a so’ modo?

Nanni: Risponderei ch’i la vogghio a mio, senz’ailtre cilimonie.

Lena: E se ti licenziassi dail podere?

Nanni: O che non c’enno ailtri poderi nil mondo che il suo, eh?

Lena: Dunque tu starai sodo?

Nanni: Piú d’un masso; anzi, che ora che tu m’hai ficco questa puilce nil capo, ne vo’ nescire e vo’ pregare il mie padrone a chiedelti per me a to pà, innanzi che il tuo lo ’mbrogghi.

Lena: Tu dí il vero; ma fa presto, che il vecchio colle tante belle ’mpromesse non lo fermi a fallo fare a so modo.

Nanni: Sarà pensier mio; tien forte ve’, Lena.

Lena: Non ti dubitare: e tu siami fedele.

Nanni: Piú d’un can bracco, guarda.

Lena: Io ti vorrò bene fino alla morte.

Nanni: Tu sarai la mia dama finch’ i’ arò ossa.

Lena: O palore biligne!

Nanni: O boce graiziosa!

Lena: Ci siamo intesi.

Nanni: Non ascad’ ailtro.

Lena: A rivedecci, Nanni mio.

Nanni: Lena, mé bella, addio.

12 E anche nelle commedie piú tarde il Fagiuoli non rinunciò mai (e forse addirittura li accrebbe) agli effetti comici dei modi di dire popolari spesso accumulati con un procedimento che ricorda il Giusti dell’Epistolario: «Voi siete nata vestita, avete tre pan per coppia; vi vien la Pasqua in domenica, vi casca il cacio sui maccheroni, vi piove lo zucchero sulle fragole, fate diciotto con tre dadi» (Commedie, V, p. 281).

13 Su cui si veda lo studio di L. Valmaggi, I cicisbei, Torino 1927.

14 Sono contenute nel vol. VII delle sue commedie.

15 Naturalmente anche qui si avvertono i limiti della fantasia del Fagiuoli e la sua inclinazione al giuoco linguistico nella tradizione idillico-comica rusticale fiorentina, entro cui va misurata, senza entusiasmi dilettanteschi, la gustosità piú insolita della stessa figurina centrale della zingara con la sua lontana somiglianza con la Azzarellina del Prati.

16 E si noti che in queste prove il Fagiuoli spesso utilizzava e conglobava precedenti schezi scenici, donde deriva anche una certa maggior difficoltà di unità e di armonia.

17 In un capitolo in cui la «musa Fagiuola» ricorre per consigli a Talia che le addita come esemplare soprattutto Terenzio.

18 Fagiuoli, Commedie, ed. cit., VII, pp. 316-317.

19 Nato a Siena o nel contado senese nel 1673, il Nelli passò la sua giovinezza a Siena nel gruppo di amici del Gigli (Benvoglienti, Brancadori, Sergardi), finché nel 1702 passò a Roma dove rimase (alternando soggiorni senesi piú lunghi nei primi anni) come precettore dei Principi Strozzi, frequentando Gigli, Forteguerri (la colonia toscana a Roma) e i circoli arcadici. Nel 1720 passò a Firenze e poi si ritirò nella sua villa di Castellina in Chianti. Morí a Siena nel 1767. Le sue commedie uscirono fra il 1731 e il 1765 a Lucca ed a Siena. Undici furono pubblicate a cura di A. Moretti, Bologna 1883-1889, in tre volumi. Scarsissima la bibliografia: oltre alle opere piú volte citate del Sanesi, dell’Apollonio, del Natali (e, per le fonti, del Toldo), si vedano l’articolo di A. Moretti, J.A. Nelli, in «Rassegna nazionale», 1° febbraio 1890, e il volumetto di F. Mandò, Il piú prossimo precursore del Goldoni, Firenze 1904.

20 Specialmente un gruppo di lettere inviate al Benvoglienti da Siena nel 1712-1713 e pubblicate nel volume citato del Mandò.

21 In alcune lettere al Benvoglienti sui metodi da lui seguiti nell’educazione del principino Strozzi (18 febbraio e 18 marzo 1713), egli ben precisa, in un tono di serietà e di calma sicura, l’ideale di un «cavaliere» onesto e moderno, educato al rispetto della religione tradizionale, ma privo di ogni superstizione e bigotteria («Da questo mio parlare Ella non s’immagini già ch’io sia per fare un allievo in bigotteria, che anzi simil gente vorrei che non se ne vedesse al mondo», Mandò cit., p. 159). Né libertino né bacchettone (e sono parole che compariranno nei Mémoires di Goldoni), l’ideale cavaliere del Nelli rispecchia quell’ideale di virtú mondana, di equilibrio fra natura e ragione, di sincerità e di correttezza morale che, in forma piú attiva e profonda, saran la base del «cittadino onorato» goldoniano. E se il Nelli è tanto piú prudente e moderato del Gigli, pare che le sue stesse commedie non convincessero troppo per i loro ideali virtuosi, ma moderni e mondani, i gesuiti del collegio Tolomei di Siena se egli si dové lamentare (Mandò, op. cit., p. 152) della loro, sia pur cauta ed indiretta, persecuzione. Sta di fatto che il moralismo a base razionalistica, per quanto prudente e rispettoso, con la sua polemica contro l’eccessiva devozione, e con i suoi valori moderni, finiva per urtare contro l’ostilità dei gruppi ecclesiastici piú rigorosi, che vedevano in quello una forma di mondanizzazione della morale, un modo di eliminare o di limitare l’esclusività della mediazione ecclesiastica.

22 La Dottoressa preziosa, in cui il Nelli contaminò spunti delle Précieuses ridicules e delle Femmes savantes (ma piú di queste), non manca di effetti comici (specie nel primo atto) nel giuoco piuttosto facile degli spropositi della protagonista e negli interventi briosi di buon senso della servetta Plautina, ma nel complesso è opera fiacca e denuncia bene la sostanziale opacità del Nelli, la sua scarsa vibrazione comica e il progressivo rallentamento del ritmo dell’azione, anche se particolari tecnici (si pensi alla scena del ballo ad es.) e i numerosi elementi di interesse culturale possono richiamare la nostra attenzione. Come documento culturale essa riflette, oltre che la polemica contro il Seicento ed il marinismo, in quegli anni piuttosto sorpassata, una certa satira del falso pindarismo, del romanzo secentesco (di cui fa la satira anche il Fagiuoli: Frasia Tarlati legge Marino e i romanzi cavallereschi mentre la saggia Cintia legge Petrarca), nonché dell’infatuazione classicistica (Saforosa dà nomi classici o pseudoclassici ai servitori). E a questo proposito si ricordi che il Nelli era piuttosto scettico di fronte al classicismo del Gravina e alla «liscia naturalezza», alla freddezza delle sue tragedie classicistiche (v. Mandò, op. cit., pp. 155-157).

23 All’inizio della sua attività letteraria il Nelli tentò anche la tragedia (a cui lo incoraggiava il Benvoglienti), ma se ne staccò presto lasciando inedita un’unica opera, Il Pompeiano.

24 Commedie, II, pp. 257-259.

25 Commedie, I, p. 10.

26 Commedie, I, p. 228.

27 Commedie, I, p. 232.

28 E si noti anche la curiosa giustificazione di società su cui il Nelli appoggia in parte la sua esigenza (cosí poco attuata in pratica) di brevità: «La libertà di conversare con donne introdotta anche in Italia, nei luoghi pubblici e per le case particolari, fa che una troppo lunga dimora in uno stesso luogo, ove debba starsi con qualche soggezione e silenzio, si renda noioso ed intollerabile piú che avanti di tal uso non era» (Commedie, I, p. 225).

29 Commedie, II, p. 226.

30 Nell’ultima parte del Vocabolario cateriniano del Gigli, terminata dal Nelli, questi si scusa con i lettori se egli non avrà le stesse qualità di estro, vivacità del predecessore (anche se poi aggiunge che tali qualità forse non eran le piú adatte al soggetto trattato e ai tempi cambiati).

31 Commedie, I, p. 113.

32 Il Goldoni, che ricordò Gigli e Fagiuoli, nei suoi Mémoires non cita mai il Nelli, ma sembra impossibile che nel suo lungo soggiorno in Toscana egli non abbia avuto modo di conoscere le opere del commediografo senese, vivo ed attivo ancora in quegli anni.

33 Cosí nei Vecchi rivali la figura, tipica della commedia dell’arte, del Capitano (ma resa piú moderna e settecentesca) e il duello farsesco fra i due vecchi rivali in amore e ugualmente spavaldi e paurosi; cosí nel Geloso in gabbia i travestimenti di Buonatutto e la farsesca trovata del falso leone.

34 Che è proprio la difficoltà cosí ben rilevata dal Goldoni nella prefazione all’edizione delle commedie del 1750.

35 I. Sanesi, La commedia, II, Milano, 1954, p. 279.